Ciao,
io sono Amanda e questo è il sesto numero di Bollicine, la newsletter in cui trovi una cosa d’attualità e qualche riflessione.
Oggi puntata speciale senza cosa di attualità, perché ho scritto un nuovo articolo per VICE Italia e voglio parlarvene.
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Dietro le quinte
L’articolo che ho scritto si chiama Come l'iper-produttività si è mangiata prima il nostro lavoro, poi anche la nostra vita ed è una riflessione sulla pressione (sociale e individuale) che ci spinge al perfezionismo assoluto. Proponendo come alternativa la pratica della mediocrità consapevole, ho cercato di capire perché vogliamo sempre essere la miglior versione di noi stess.
Siccome Kyle Chayka Industries è una delle mie newsletter preferite, per questo episodio di Bollicine ho deciso di replicarne la struttura. Chayka è un giornalista americano e nel suo lavoro si concentra sulle modalità in cui la tecnologia impatta la società contemporanea nel suo insieme.
Chayka è anche uno dei miei autori preferiti, e con “preferiti” intendo che molto spesso nei suoi saggi trovo una spiegazione logica a qualcosa che mi girava in testa da molto tempo, ma a cui non riuscivo a dare forma o esprimere in modo coerente. Un ottimo esempio è questa recensione di Emily in Paris che contestualizza la serie nella cornice dell’ambient TV, intesa come produzione video costruita ad hoc per fare da sottofondo alle nostre vite.
Tornando a noi, la sua newsletter Industries è una sorta di dietro le quinte dei saggi e articoli che Chayka pubblica altrove. Una sorta di approfondimento in cui mette a fuoco le varie fasi di sviluppo, scrittura ed editing di un pezzo prima che finisca online. Servendomi di questa struttura, volevo raccontarvi come è nato l’articolo che vi linkavo prima, perché magari non sono l’unica che si sente vittima dell’iper-produttività nel suo tempo libero, o magari non sono l’unica che sta cercando di disimparare il perfezionismo. Chissà. Parliamone.
Sviluppo
Come molt di voi, ho passato il primo lockdown da sola nel mio bilocale, a 250 km circa dalla mia famiglia. Sebbene per carattere e inclinazioni personali non avrei mai affrontato una quarantena “in compagnia”, non è stato un periodo dei più facili per la mia salute mentale. A spaventarmi non era la solitudine, una sensazione che conosco bene, che mi piace e a cui mi ero abbondantemente abituata trasferendomi prima a Brema e poi a Berlino. Io in paranoia ci sono andata per la sconsiderata quantità di tempo che mi sono ritrovata a dover gestire a mia discrezione e che prima non avevo.
Basta aperitivi che diventano cene che diventano serate. Niente più tragitto casa-redazione-redazione-casa in compagnia dei miei splendidi e a volte fastidiosissimi colleghi. Fine delle cose da fare negli spazi terzi. Tutto quello che rendeva la mia vita tanto stressante quanto divertente si è volatilizzato nel nulla, schiacciato da nuove esigenze ed emergenze. Non puoi rimpiangere gli eventi e le serate quando tutta la tua famiglia ha il covid, ma mettere tutto sullo stesso piano è come sommare pere e sardine: ok, tecnicamente sono alimenti, ma non hanno nulla a che vedere le une con le altre.
Combattuta tra nuove priorità, vecchie esigenze e un mondo che non capivo più, ho risposto nell’unico modo che conosco: mettendo ordine ovunque, anche dove non serviva o era addirittura nocivo. Una routine inscalfibile, ritmi militari e numeri a monitorare i miei sgarri sono stati i tre pilastri su cui ho costruito l’emergency kit della mia quarantena. Non andavo a fare la spesa; completavo il mio obiettivo di 10.000 passi giornalieri. Non facevo yoga per rilassarmi; perseguivo uno sciocco ideale di corpo perfetto che non mi appartiene. Non seguivo dei corsi online per coltivare hobby in linea con la mia personalità; perfezionavo le mie skill professionali.
Tutto aveva un obiettivo, uno scopo ultimo che avrebbe dovuto spingermi a tenere insieme i pezzi di una psiche un po’ malridotta. Ci sono voluti mesi per rendermi conto che il tempo non è un barattolo da colmare fino all’orlo, ed è durante l’estate che ho iniziato a riflettere sull’iper-produttività a cui avevo costretto corpo e cervello da marzo in poi. Riabituandomi ad uscire, andando al cinema e facendo qualche weekend fuori porta ho capito che andava bene anche così, perdendo tempo anziché riempiendolo.
Scrittura
L’estate è finita, i lockdown sono tornati e io ho ricominciato a fare mezzanotte davanti al pc tutte le sere, tra corsi di Photoshop e l’ennesimo longform che mi ero prefissata di leggere fino alla fine. Poi è arrivato il 2021 e qualcosa è cambiato. L’anno nuovo è sempre un momento di nuovi inizi e buoni propositi, ma ultimamente sono sempre più numerose le voci che criticano l’idea per cui ogni nuovo anno sia il momento per reinventarsi e rigenerarsi attraverso obiettivi impossibili da raggiungere, che alimentano il nostro senso di colpa e, in ultima analisi, sono pensati solo per farci comprare nuovi beni o servizi di cui non abbiamo nessun bisogno.
Un articolo che mi ha colpito particolarmente in quei giorni di grandi ruminamenti interiori è stato In Praise of Extreme Moderation, scritto da Avivah Wittenberg-Cox sull’Harvard Business Review. Il candore con cui viene esposta la tesi della moderazione consapevole mi ha destabilizzata, spingendomi a mettere in discussione una volta per tutte l’utilità di tanti webinar, certificati e (presunte) skill da aggiungere al curriculum.
“There are tens of millions of people who do better at each of these things than I do. But I don’t have to compare myself with them, because I’m in a different competition. And in that arena, I’m one of the best I know. I am an absolute master at moderation.”
Essere la migliore nell’essere mediocre. Coltivare la volontà di non competere. Scegliere deliberatamente di astenersi dal giudizio. Godersi, semplicemente, le cose per quelle che sono. Leggendo questo articolo e iniziando a documentarmi ho iniziato a buttare giù qualche idea, e intanto questa mitica editor, collega e amica mi ha proposto di trasformare l’informe caos che stavo metabolizzando in un articolo. Inizialmente avrei dovuto concentrarmi sulla futilità dei buoni propositi, ma poi le settimane sono passate, i miei ritardi si sono accumulati e si è convenuto di pubblicarlo più avanti, a un anno circa dall’inizio della mia ossessione per gli hobby.
Mettendo in ordine i pensieri, mi sono resa conto che l’ostacolo più grande sarebbe stato trasformare la mia esperienza personale—che ho scelto di raccontarvi qui perché questa è uno spazio personale, non un magazine online—in qualcosa di più collettivo e identificativo. Sapevo di non essere l’unica ad aver vissuto certe cose, ma non riuscivo a trovare la chiave giusta per far sì che anche gli altri riuscissero a rivedere le loro esperienze nelle mie parole.
Editing
Nonostante i dubbi, ho mandato una prima bozza per capire se fossi sulla strada giusta o no. Arrivati gli edit, ho ricominciato a leggere ossessivamente qualunque cosa avesse anche solo vagamente a che fare con l’iper-produttività, perché è questo quello che faccio quando non mi sento sicura di me o delle mie idee: mi documento, studio, prendo appunti, elaboro e penso. Tendenzialmente in questa fase non scrivo, lascio sedimentare le riflessioni per poi riprenderle a mente fredda dopo qualche giorno.
Mi sono persa sul sito di Tim Ferriss, che avevo già deciso avrebbe fatto da intro e outro, ho ascoltato i suoi podcast e mi sono indignata di fronte alla sua sconfinata americanità. Ho guardato i suoi video su YouTube, impazzendo di fronte a Life Is Short: How To Add A Sense Of Urgency. Tutto questo mi ha aiutata a rielaborare alcuni concetti che mi era stato chiesto di ampliare, in particolar modo quello relativo al senso di colpa che proviamo quando non raggiungiamo i nostri obiettivi, e come questa minaccia sia il fulcro di ogni trucco per essere più produttivi.
Finito tutto questo rimuginare, riscrivere e ricorreggere il pezzo è tornato all’editor, e di lì ho atteso che fosse pubblicato. Ne vado orgogliosa non perché penso sia particolarmente ben scritto, ma perché non mi capita spesso di suscitare empatia in chi mi legge. Quindi ecco, sono felice, se lo leggete e mi dite che ne pensate sono contenta.
Disclaimer! Disclaimer! Disclaimer! Questa newsletter è un hobby per me, ed è un hobby a cui tengo molto. Da quando ho cercato di non diventare matta inseguendo la chimera del perfezionismo ho ridotto il ritmo delle pubblicazioni, ma essendo una cosa che mi piace molto fare nel mio tempo libero, continuerò a farla. Perché il punto non è mai (e non è mai stato) abbandonare le cose che ci piacciono, ma scegliere di dedicare loro un tempo giusto, non tutto il tempo che abbiamo.
Le cose che devo dire prima di concludere, altrimenti non sembra una vera newsletter:
1) Le newsletter crescono quando la gente ne parla, quindi se vuoi aiutarmi e farla girare, questo è il link giusto per farlo.
2) Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi di “Bollicine”. Se vuoi, puoi farlo via Instagram, Twitter o email.
3) Se non trovi la newsletter, controlla lo spam e poi spiega al tuo provider di posta elettronica che no, “Bollicine” non è spam. Grazie al cazzo, mi dirai tu, ma secondo Substack è importante reiterare il concetto quindi eccomi qui a reiterarlo.
4) Se niente funziona, ricorri all’archivio. Lo trovi qui.
Dire grazie
Grazie Alice, per essere un’editor WOW e una dispensatrice di meravigliosi consigli.