Nessuno sa quanto sia alto l'Everest
La Cina e il Nepal litigano da decenni sull'altezza precisa della vetta del mondo, e non potrebbe essere altrimenti.
Ciao,
questo è il primo numero di “Bollicine”, la newsletter in cui trovi una cosa d’attualità e qualche riflessione.
L’obiettivo qui non è ridurre la complessità del mondo, ma spezzettarne gli accadimenti per osservarli più da vicino e, si spera, darti l’occasione di capirli un po’ meglio.
Oggi parliamo di montagne, Hugh Grant e ghigliottine. Buon divertimento.
Per un pugno di centimetri
Tutti sanno che l’Everest è la montagna più alta del mondo, ma nessuno sa quanto sia alta di preciso.
L’8 dicembre il Nepali Times ha annunciato che, dopo 10 anni di misurazioni e contrattazioni, Nepal e Cina si sono finalmente messi d’accordo sull’altezza ufficiale dell’Everest: 8.848,86 metri. La differenza rispetto alla precedente misurazione internazionalmente accettata è di ben 86 centimetri.
Nel 2010 i due paesi su cui si erge l’Everest hanno dichiarato che avrebbero eseguito misurazioni separate per cercare di avvicinarsi il più possibile all’esatta altezza di questa montagna—o quantomeno per smettere di litigare e decidere una volta per tutte cosa misurare e come misurarlo (ma lo strato di neve che c’è sulla vetta dell’Everest lo calcoliamo? Sì, no, forse? Calcoliamolo, dai).
Per la prima volta, non sono stati dei centri di studio occidentali a effettuare rilievi e analisi, ma esperti nepalesi e cinesi. “Prima di questa spedizione, non eravamo mai stati noi ad eseguire le misurazioni”, ha dichiarato alla BBC Damodar Dhakal, portavoce del Nepal Survey Department. “Oggi abbiamo un team giovane e specializzato [che ha potuto anche raggiungere la cima dell’Everest] e questo ci ha permesso di farlo da soli”. Io sento odore di orgoglio nazionale fin da qui, voi?
Comunque, la prima misurazione ufficiale dell’Everest risale al 1856, quando l’organizzazione Great Trigonometric Survery of India calcolò che fosse alto 8.840 metri. Le misurazioni successive riportano le seguenti cifre: 8.848 metri, 8.846 metri, 8.850 metri e, fino a pochi giorni fa, di nuovo 8.848 metri.
Può una montagna diventare collina?
Ma qual è la ragione per cui due paesi passano decenni ad azzuffarsi tra loro prima di decidere definitivamente quanto sia alto l’Everest? Tralasciando le motivazioni politiche e scientifiche, credo sia interessante chiederci perché in generale misuriamo le cose.
Per continuare la riflessione, devo ora fare appello alla mia sterminata conoscenza cinematografica di film brutti girati negli anni ‘90. Tutto questo teatrino montanaro mi ha ricordato infatti L'inglese che salì la collina e scese da una montagna (1995), film diretto da Christopher Monger che ha come protagonista un bucolico Hugh Grant.
La commedia, ambientata nel Galles della Prima Guerra Mondiale, narra le gesta di due cartografi che devono misurare una montagna, ma dopo averla misurata si accorgono che è una collina perché non arriva ai 1.000 piedi d’altezza, requisito minimo richiesto alle vette inglesi per essere definite montagne e non colline.
Noioso e nel complesso bruttino, da questo film emerge tuttavia un’insolita morale: misurare è dare identità alle cose che ci circondano, imparando non solo a conoscerle ma anche a ri-conoscerle. E come una collina è una collina solo finché arriva a un certo numero di piedi e dopo diventa una montagna, così quegli 86 centimetri di Everest rappresentano la volontà dell’essere umano di non farsi intimorire neanche dalla vetta più alta del mondo.
Misurare la paura
I centimetri sono metri che (ancora) non ce l’hanno fatta, ma cosa sono i metri? Secondo l'Enciclopedia Treccani, l’unità di misura del metro veniva inizialmente calcolata come “la quarantamilionesima parte del meridiano terrestre”. Ma dal 1983 in avanti con metro s’intende qualcosa di ben diverso, cioè “lo spazio percorso dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299.792.458 secondi”.
A cosa dobbiamo questo cambio di paradigma? Il metro-campione inizialmente scelto come riferimento dall’Accademia francese delle scienze (una comodissima sbarra di platino rettangolare) era in realtà 0,2288 millimetri più corto della quarantamilionesima parte del meridiano terrestre. Il metro, dunque, non era un metro. A essere sbagliata era la stessa unità di misura concepita dall’uomo, a causa della “dipendenza del sistema da oggetti concreti”, cioè da sbarre in platino, scrive Scott Sayare sul The New Yorker nella sua breve storia del chilogrammo.
Del resto, il sistema metrico decimale altro non è che il prodotto “di quelle stesse forze della storia che ci hanno dato la ghigliottina”, commenta David Owen sempre sul The New Yorker. Messo a punto dagli scienziati francesi durante l’Illuminismo, tale sistema fu fin dalla sua nascita un tentativo malriuscito di razionalizzare il caos. In un paese, la Francia, e un continente, l’Europa, dove esistevano decine di sistemi di misurazione, l’Accademia definì una breve lista di unità di misura sviluppate a partire dal metro, così che una pinta di birra fosse una pinta di birra ovunque e una moneta d’oro avesse lo stesso peso in ogni mercato di ogni porto del Mediterraneo.
E se misurare equivale a sistematizzare, è dunque logico che, quando il mondo sembra non rispondere più alle leggi che conosciamo (tipo quando i re vengono ghigliottinati), l’essere umano si rifugi nei numeri per salvarsi dalla sua stessa follia. Peccato che quei numeri siano il frutto della pazzia umana, non l’antidoto.
Morale della favola
Personalmente, mi risulta impossibile non leggere questa storia come l’apoteosi dell’utopico razionalismo umano: tendiamo alla perfezione, vogliamo andare oltre la fallacia della nostra specie, ma nel tentativo di allungarci verso questo ideale irraggiungibile cadiamo vittime della nostra stessa imperfezione. Credo quindi che misurare significhi mettere a fuoco la realtà circostante, eliminando gli elementi di disturbo e concentrandosi su ciò che non fa paura perché ri-conoscibile.
Se misuro qualcosa, allora è sotto il mio controllo. Inconsciamente lo abbiamo pensato tutti, ad esempio, leggendo il bollettino quotidiano della Protezione Civile in cui vengono sciorinati numeri più o meno esatti sulla pandemia da Covid-19. Possiamo anche non capire il senso di un fenomeno (non sappiamo perché uno strano virus stia mettendo in ginocchio il mondo intero), ma non possiamo fare a meno di inserire tale fenomeno all’interno di piccole gabbiette da cui osservarlo senza che ci incuta troppo timore.
Il morale della favola è quindi che l’idea stessa di misurare qualcosa sia intrinsecamente collegata all’incertezza. Anche oggi, se vogliamo sapere quanto è alto il nostro cuginetto Gianpaolo, lo faremo usando il metro Ikea che abbiamo trovato appallottolato nel cassetto delle cianfrusaglie, ma quell’oggetto non ci dirà mai con esattezza quanto è alto Gianpaolo. Ci fornirà solo una cifra indicativa a riguardo.
Ecco, lo stesso vale per l’Everest: nessuno sa quanto sia alto davvero, ma non smetteremo mai di misurarlo.
Volevo finire con la frase a effetto ma ci sono ancora delle cose che ti devo dire:
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Dire grazie
PS: ovviamente, in Italia è Il Post che racconta questa storia meglio di tutti gli altri e cita a sua volta Montagna News, periodico del settore che nel 2012 ha dedicato il suo primo numero proprio alla misurazione dell’Everest. Una lettura che definirei entusiasmante, senza nessun tipo di ironia.