Ciao,
io sono Amanda e questo è il quarto numero di Bollicine, la newsletter in cui trovi una cosa d’attualità e qualche riflessione.
Intanto benvenut, grazie a Valerio e alla sua Ellissi oggi ci sono un sacco di nuov iscritt e io non potrei essere più felice.
PS: Se sei qui ma non ti sei ancora iscritt, questo è il link giusto per farlo.
L’unico augurio possibile
Siccome, con un discreto ritardo, quello che leggete è il primo numero di Bollicine del 2021, volevo iniziare l’anno con una nota positiva.
Pubblicata il 9 gennaio 2019 dal New Yorker, la poesia American Sonnet for the New Year di Terrance Hayes è uno sprazzo di misurato ottimismo che corrisponde esattamente al meglio in cui possiamo sperare oggi.
things got terribly ugly incredibly quickly
things got ugly embarrassingly quickly
actually things got ugly unbelievably quickly
honestly things got ugly seemingly infrequently
initially things got ugly ironically usually
awfully carefully things got ugly unsuccessfully
occasionally things got ugly mostly painstakingly
quietly seemingly things got ugly beautifully
infrequently things got ugly sadly especially
frequently unfortunately things got ugly
increasingly obviously things got ugly suddenly
embarrassingly forcefully things got really ugly
regularly truly quickly things got really incredibly
ugly things will get less ugly inevitably hopefully
Insomma, buon 2021 e cominciamo.
Quando la fiducia va in bancarotta
Pochi giorni fa, la società di consulenza Edelman ha pubblicato il Trust Barometer 2021, l’annuale analisi sul rapporto tra cittadini privati e istituzioni che cerca di rispondere a un’insidiosa domanda: di chi ci fidiamo oggi? Complice la pandemia da Covid-19 e le sue disastrose conseguenze economiche, dalla ricerca emerge che non ci fidiamo dei nostri governi, né dei media mainstream o delle ONG. Ci fidiamo invece (molto poco) dei brand.
Fondata nel 1951, Edelman è oggi una multinazionale che conta oltre 6.000 dipendenti e 60 sedi in tutto il mondo. Il suo Barometro è un indicatore socio-economico di primaria importanza, generalmente considerato come una tra le più approfondite analisi internazionali sul tema della fiducia, ma viene redatto con il chiaro obiettivo di fornire asset strategici ai clienti di Edelman. Per quanto rispettata, la sua visione rimane comunque parziale, oltre che non priva di controversie etiche.
[GIF via Edelman Trust Barometer 2021]
Secondo Edelman, la fiducia è la valuta definitiva delle relazioni che le istituzioni (intese come brand, governi, ONG e media) costruiscono con i loro partner. Nel linguaggio quotidiano, invece, con “fiducia” s’intende l’atteggiamento di confidare nelle altrui possibilità a seguito di una valutazione positiva di fatti, circostanze e relazioni che ha generalmente come conseguenza un diffuso sentimento di sicurezza e tranquillità.
L’accezione utilizzata da Edelman si differenzia in modo sostanziale da quella comune, ponendo l’accento sulle istituzioni più che sui singoli individui, e trasformando dunque la fiducia in un’unità di misura che valutare lo status dell’economia globale nel suo insieme.
L’anno in cui l’informazione ha dichiarato fallimento
Pubblicato per la prima volta nel 2001, il Barometro individua di anno in anno un insight specifico attorno al quale imbastire un più ampio storytelling. Per il 2021 lo slogan scelto è Declaring Information Bankruptcy: l’informazione dichiara fallimento. I fatti dell’ultimo anno, sostiene Edelman, avrebbero “accelerato l’erosione della fiducia in tutto il mondo”, mettendo quindi il turbo a un processo già in corso da decenni.
All’aumentare di incertezza e caos, abbiamo progressivamente smesso di fidarci della politica, dei media e delle Organizzazioni Non Governative, scegliendo di aggrapparci a un’ancora diversa: il sistema economico capitalista. Al posto dell’informazione troviamo dunque i brand, intesi come megafono attraverso cui vengono veicolati messaggi più o meno legati alle nostre abitudini d’acquisto.
[Ecco il brand in cui io personalmente ripongo tutta la mia incondizionata fiducia: Yoga With Adriene]
Spetterebbe proprio ai brand “sfruttare questo incarico e l’aumento delle aspettative, intraprendendo azioni significative e poi comunicandole.” Inoltre, sono sempre i leader aziendali a dover, secondo Edelman, mettere a disposizione contenuti affidabili, veritieri e imparziali. Se vi suona familiare è perché questa potrebbe essere la mission di qualunque organo d’informazione o media, e invece sono i consigli strategici di una società di consulenza.
Nel momento in cui riponiamo la nostra fiducia nelle loro mani, cosa chiediamo di preciso ai brand? Principalmente, tre cose: opinioni, azione e guida. Vogliamo che prendano posizione, ma anche che agiscano nel pieno rispetto di tale posizione, rimanendo coerenti con il messaggio che comunicano. Infine, desideriamo che ci forniscano non solo un supporto continuativo nello sviluppo di opinioni personali, ma anche le risorse necessarie per sopperire alla mancanza di informazioni che arrivano dai media tradizionali.
Una questione di famiglia
Ancor prima dei media, in Italia era la famiglia a farsi carico di tali oneri, come teorizzato dal sociologo Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society (1958). “Massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare; supporre che gli altri si comportino allo stesso modo”: questa la regola secondo cui agirebbero gli italiani nell’idea di Banfield.
Al di là degli stereotipi insiti nella ricerca dello studioso inglese, è innegabile quanto la rete familiare sia stata storicamente un punto di riferimento economico nel nostro paese. La struttura sociale in cui viviamo è connotata da una forte orizzontalità, e la fiducia viene riposta in chi ci sta accanto, non in chi sta gerarchicamente al di sopra di noi. Ma cosa succede quando la famiglia non è più il nucleo in cui trovare rifugio, ma da cui trovare rifugio?
[GIF via Jersey Shore, perché ognuno ha i suoi peccatucci]
Da rete di protezione e assistenza, durante la pandemia da Covid-19 la famiglia ha assunto connotati radicalmente diversi. Per chi si è trovato a passare 24 ore su 24 con i propri familiari è diventata una realtà asfissiante, da cui scappare, mentre tutti gli altri hanno visto allontanarsi sempre di più il loro nucleo familiare, così distante da rivelarsi impossibile da raggiungere. Che sia perché ci è troppo vicina o troppo lontana, la famiglia è in definitiva una struttura sociale inadeguata per sopperire ai bisogni dell’essere umano durante la pandemia, e all’orizzonte di questo discorso si delinea un vuoto enorme, abissale e senza fine. Fa paura scrutarci dentro, ma per fortuna c’è chi l’ha fatto per noi.
Da un anno, tutti ci lasciamo cullare da “un’ossessione per l’assenza”, come la definisce Kyle Chayka nel suo saggio How Nothingness Became Everything We Wanted, pubblicato dal The New York Times Magazine. “Sono arrivata a definire l’intenzionale cancellazione del sé e dell’ambiente che ci circonda come una cultura della negazione”, prosegue la giornalista. L’iperstimolazione che definisce l’esistenza contemporanea, teorizza Chayka, ha fatto emergere in tutti noi un desiderio di vuoto che è improvvisamente così a portata di mano da non esserci più ragioni per evitarlo. E se un vuoto è una mancanza, poco importa da cosa sia generata, quanto invece il fatto che non abbiamo idea di come colmarla.
Le cose che devo dire prima di concludere, altrimenti non sembra una vera newsletter:
1) Le newsletter crescono quando la gente ne parla, quindi se vuoi aiutarmi e farla girare, questo è il link giusto per farlo.
2) Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi di “Bollicine”. Se vuoi, puoi farlo via Instagram, Twitter o email.
3) Se non trovi la newsletter, controlla lo spam e poi spiega al tuo provider di posta elettronica che no, “Bollicine” non è spam. Grazie al cazzo, mi dirai tu, ma secondo Substack è importante reiterare il concetto quindi eccomi qui a reiterarlo.
4) Se niente funziona, ricorri all’archivio. Lo trovi qui.
Dire grazie
Haley Nahman è quella persona a cui penso quando mi chiedo che tipo di contenuti voglio creare in questa newsletter. È nell’ultimo numero di Maybe Baby che ho letto di Edelman, e poi da lì una cosa tira l’altra. Grazie Haley.